By Elsa Bonfiglio
Donne in abiti haute-couture o svestite da sottovesti trasparenti sono ritratte al pari di oggetti di design, mute e fragili, come elementi architettonici, sofisticate e inaccessibili. Erwin Olaf, appena insignito del titolo di fotografo dell’anno 2009, presenta a New York “Hotel&Dawn/Dusk”
di Elsa Bonfiglio
Sofisticato e spiazzante. Patinato e concettuale. L’olandese Erwin Olaf, fotografo e filmmaker, presenta alla galleria Hasted Hunt di New York, “HOTEL & DAWN/DUSK”. Ultimi tre capitolifotografici realizzati da uno degli artisti più eccitanti della fotografia contemporanea. Recentemente insignito a Parigi del premio “Fotografo dell’anno 2009”, Erwin Olaf parla con un linguaggio estremamente contemporaneo del dolore immobile, dell’afflizione muta, dell’angoscia liquida, della noia emotiva.
Come nelle serie “RAIN”, “GRIEF”, “HOPE”, anche in “HOTEL” ci troviamo di fronte a una collezione di ritratti enigmatici, per lo più a soggetto femminile, donne catturate in momenti privati, come ripiegate su se stesse e sui propri interiori discernimenti. Come nei primi lavori la scena è tutta costruita attorno a fascinazioni da primi anni Sessanta. Un rimando costante che dall’arredamento degli interni fatto di moquette soffocanti e tende leggere, carte da parati, poltrone in pelle e design minimale, si estende fino agli abiti, alle sottovesti impalpabili.
Dalla pelle nuda al trucco e alle acconciature delle sue modelle/manichino, le luci e i colori rétro, tutto rimarca un ideale déjà vu: è una sospensione emotiva artificiale ma intensa, fatta di pose e smorfie ben strutturate che abbracciano l’oggi con ammiccamenti stilistici a un’America anni Sessanta, e anche l’inquietudine di un David Lynch, e le riviste di moda ugualmente glamour e distanti. L’ispirazione per la serie “HOTEL” viene letteralmente dai viaggi dell’artista, in una sospensione temporanea di linfa vitale, Olaf imprime sulla sua pellicola le molteplici sensazioni che attraversano l’essere in viaggio: la transitorietà, la solitudine, la lontananza dalle proprie cose e in qualche modo così anche da se stessi. In ogni camera di Hotel ci sono elementi
che riportano alle città differenti che la geografia statica di Olaf percorre con luci squisite e dinamiche annoiate da camera d’albergo vuota. Spogliarsi. Rivestirsi. Dormire. Do not disturb. Le donne di Olaf, meravigliose quanto artefatte, sembrano essere sempre fotografate in momenti privati di riflessione o indecisione. Ovunque è palpabile l’ombra di un dramma in divenire che non diviene mai, come un climax abortito e sospeso ma in agguato. Sembra che alcune di loro stiano piangendo. La ragione di quelle lacrime non è mai esplicita. In modo simile anche le foto sembrano volersi sciogliere di quello stesso languore e i colori scivolano sulla pelle.
Come le immagini sfolgoranti della serie “New York Times”, anche queste ultime sembrano fotografie di moda eppure sono inaspettatamente tristi e ossessive, affascinanti e crudeli, glamour quanto kitsch, iperrealistiche quanto oniriche. Decisamente immobili. Decisamente liquide quasi come se gli abiti si sciogliessero addosso al corpo e la carta da parati, insieme agli innumerevoli particolari architettonici, volessero ingoiarle in uno scricchiolare ironico.
“DAWN&DUSK” rappresenta invece una sorta di maturità espressiva nell’approccio alla fotografia, sia nella forma che nel contenuto. La serie nasce da un viaggio di Olaf in America, e più precisamente dalla visione al Museum of Modern Art (NY) collection, della serie “The Hamptons Album” realizzata intorno al 1900 dalla fotografa Frances B. Johnston. Si trattava di una raccolta di fotografie di studenti, nativi e afro-americani rappresentanti della middle-class, di una scuola della Virgina nel diciannovesimo secolo. Ha voluto ricreare esattamente l’atmosfera di quelle foto. “DUSK” è il primo lavoro di Olaf in bianco e nero da oltre dieci anni. L’artista descrive il risultato finale come una “dark comic strip”. “DAWN” in qualche modo è l’antitesi e la risposta a “DUSK”. Totalmente a colori, “DAWN” si basa sull’incontro di popolazioni russe dalla pelle pallida in stanze senza alcuna caratteristica. Se in “DUSK”, crepuscolo, il contenuto narrativo non è chiaro, ma affiora un dramma inconsapevole, quasi già avvenuto e assorbito dalla pelle dei protagonisti, statici e assuefatti a un pittorico mutismo, “DAWN”, l’alba, inverte i toni, li gioca in un campo di bianchi e fredde palette cromatiche sovvertite solo dal pallore roseo della pelle dei soggetti/oggetti specchi in carne e ossa di una rinascita estetizzante.
Video e installazioni sonore accompagnano la mostra, e sembrano lasciare il posto alla penombra, all’interiorità spersonalizzata. Mentre i corpi continuano a essere paradigmi dell’incomunicabilità. L’impatto? Fascino altero che sconvolge, e disorienta.